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Palestina tra occupazioni, stragi e resistenza

In occasione dell’iniziativa del 10 giugno 2023 allo Spazio Antagonista Newroz abbiamo avuto l’occasione di condividere delle letture da “Foglie di Gelso – racconti palestinesi” un libro di Aysar Al-Saifi. Una raccolta di racconti sull’esperienza della prigionia dei palestinesi nelle carceri israeliane, un’opera che non mostra un’impronta unicamente politica, ma si concentra ampiamente sull’esperienza umana e i sentimenti che ne vengono suscitati. Si tratta di storie vere, tramandate all’interno del campo profughi di Dheìsheh a Betlemme, uno dei più grandi della Palestina/Cisgiordania, di cui è originario l’autore. Una testimonianza che espone l’eterogeneità delle esperienze dei prigionieri, le diverse opinioni riguardo l’occupazione israeliana e il rapporto con il nemico-vicino e con la propria terra. Un libro che dà voce ai senza voce.
Riportiamo di seguito alcuni estratti dai testi letti.

Il telecomando

«Cosa significa campo profughi?», chiese lei.
«Il campo è un luogo che ti permette di vedere il mondo con chiarezza».
Poi aggiunse: «Ti racconterò una storia. Una sera io e mio padre stavamo guardando la televisione. Era il maggio 2003 ed eravamo abituati a sedere e chiacchierare di un po’ di tutto; o forse è meglio dire che eravamo soliti farlo a seconda del tempo che aveva a disposizione, dato che a volte tardava un po’ o non era dell’umore giusto per parlare con me. Quella sera, mentre stavamo guardando la televisione, rimasi di stucco quando, senza nessun preavviso, un uomo entrò in sala, prese il telecomando in mano e iniziò a fare zapping tra i canali della TV. In un primo momento rimasi sconcertato, poi mi avvicinai intimorito a mio padre; non conoscevo quell’uomo e non l’avevo mai visto prima in casa nostra o nel quartiere. Come poteva fare irruzione in casa senza chiedere il permesso e sedersi tra noi come se nulla fosse? Probabilmente il fatto che mio padre, al contrario di me, non sembrò mostrare alcun interesse per quello che era successo aumentò la mia paura, come se io fossi il solo a essermi accorto della sua presenza.
Dopo qualche minuto, l’uomo posò il telecomando sul tavolo e guardò mio padre sorridendo, rosso in viso. Prima che potesse parlare, mio padre gli chiese interrogativo:
“Pensi che se ne siano andati adesso?”.
“Ma chi?”, mi intromisi io, dopo aver guardato mio padre senza capire.
Lui continuò, ridendo:
“Non preoccuparti, e non vergognarti. Questa è anche casa tua, la mia famiglia è la tua famiglia. L’importante è che tu stia bene e che, entrando in casa, tu sia riuscito a sfuggire ai controlli delle forze di Occupazione”.
A quel punto capii. Capii quanto è bello questo campo, con le storie e le relazioni sociali di cui è fatto e che non si trovano oltre i suoi muri. Capii che, nonostante la polvere del tempo, il campo continua ad accogliere ogni storia che fugge dal freddo dell’inverno. Come ha fatto con questo ragazzo che stava scappando dall’esercito israeliano durante una delle irruzioni nel campo; per sfuggire all’arresto non aveva potuto far altro che fingere di essere un abitante di casa nostra. E mio padre gli aveva retto il gioco, come se anche lui avesse vissuto in precedenza quell’esperienza e quelle circostanze.
Mi hai chiesto del campo…
Questo è il campo..».


Militanti per il mare

Basel guardo l’amico. Le autorità israeliane avevano negato a lui, alla moglie e ai figli il permesso per poter attraversare il posto di blocco e andare al mare.
«Sai una cosa?».
«Cosa?», chiese l’amico pacatamente.
Basel fece un respiro profondo e cominciò a spiegare:
«L’Occupazione, con questa storia di aver rifiutato il permesso, ha trasformato questi bambini che non capiscono nulla di politica, di economia e di storia in nuovi militanti per la libertà. Ha piantato in loro i semi dell’odio, del disprezzo e della ribellione: non dimenticheranno mai il giorno in cui sono stati privati della possibilità di vedere il mare».
Riprese, con le lacrime agli occhi:
«Ora io non riesco a fermarli, a proibirglielo e nemmeno a rispondere alle loro domande. Hanno iniziato il loro viaggio alla scoperta del significato della patria, come gli altri bambini. Un giorno li chiameranno “i militanti per il mare”».


I sogni del campo

Raid era un altro dei ragazzini del campo. Non aveva più di vent’anni ed era un amico fidato e una persona generosa. All’età di diciott’anni, nel 2014, la povertà e la miseria lo avevano condotto dai banchi di scuola alle prigioni israeliane. Nonostante ciò, uscì di cella che era ancora un ragazzo alla ricerca dell’infanzia tra i vicoli della memoria e le strade del campo; alla ricerca degli amici con cui non aveva finito la partita di calcio in strada, con cui non era stato seduto sui libri di scuola.
«Condividevamo molti ricordi e numerose discussioni», disse il suo amico Muhammad, «discussioni che avevano portato a galla dettagli che non mi aveva mai raccontato prima. Non sapevo nulla della sua malattia, nulla della povertà che gli aveva impedito di completare le cu-re, nulla dei sogni che aveva abbandonato là, nell’ombra delle celle. Quello che sapevo era che mi ero abituato a vederlo a casa nostra, a sedere con lui e ridere, ad averlo intorno ogni qualvolta ne avessi bisogno; mi ero abituato al fatto che fosse amico mio e della mia famiglia».
«Quando uscii di prigione, non lo trovai. Presi a cercarlo nei vicoli mentre, nella mia immaginazione, l’eco della sua voce mi seguiva. Lo cercai ma non trovai altro che foto di lui appese dappertutto. Mi dissero che le forze di Occupazione avevano fatto irruzione in casa sua e che, prima che potesse scappare, avevano sfogato su di lui la loro rabbia e le loro pallottole; lo avevano colpito e avevano lasciato che il suo sangue e i suoi ricordi scorressero sulla strada principale. Otto pallottole, ore, grida, sangue e soldati che proibirono a sua madre, ai suoi amici e perfino all’ambulanza di avvicinarsi a lui. Poi lo arrestarono, lo arrestarono fino alla fine, lo arrestarono dopo la fine».
«Cosa intendi dire?».
Muhammad guardò l’amico e disse piangendo:
«Voglio dire che il suo sangue scorse fino a quando morì. Poi imprigionarono il suo corpo in una cella. Ebbe la stessa sorte di tanti altri palestinesi che muoiono durante l’operazione di arresto ma di cui le forze di Occupazione continuano a imprigionare i corpi come sorta di punizione dopo la morte».
Posò una rosa sulla sua tomba e prese a ripetere a voce bassa:
«Mio piccolo amico. Non so come e perché tutto ciò sia successo. Come ti hanno abbandonato sulla strada e non hanno permesso a nessuno di abbracciarti, come ti hanno lasciato impedendo a chiunque di condividere con te il dolore, la tristezza, le paure e i ricordi. Perdo-nami, amico mio, per averti deluso e per non esserti stato vicino fino alla fine. Però, amico mio, seminerò i tuoi sogni di fianco agli alberi che ancora ci sono nel campo e li scriverò su ogni strada per raccontare a tutti che hai sognato e che, per i tuoi sogni, sei caduto».

03/09/2017


Puoi trovare il libro “Foglie di Gelso – racconti palestinesi” di Aysar Al-Saifi tra gli scaffali della Libreria Popolare Paulo Freire. Clicca qui per consultare il catalogo completo.

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